Boris Godunov, alla Scala la Russia di ieri e di oggi

Cesare Galla
04/12/2022

Il capolavoro operistico di Musorgskij è permeato da un desolato fatalismo, sia per quanto riguarda i tormenti dello zar, che per il destino del popolo. Un pessimismo che dal racconto di vicende lontane allunga la sua ombra sui secoli successivi, fino ai giorni nostri.

Boris Godunov, alla Scala la Russia di ieri e di oggi

La morte dell’erede al trono, un bambino di sette anni, nella Russia al passaggio dal XVI al XVII secolo. Evento orribile: delitto o incidente che sia (la cosa non viene mai chiarita del tutto), ha l’effetto di opprimere con fatali ossessioni chi su quella morte ha rafforzato il proprio potere assoluto, lo zar Boris Godunov. Il capolavoro operistico di Modest Musorgskij – che mercoledì 7 dicembre inaugura la stagione della Scala – s’ispira al dramma di Aleksandr Puškin che reca lo stesso titolo e ne realizza una drastica riduzione: rispetto alle 23 scene e alla folla di oltre 60 personaggi del poeta, il libretto messo a punto dallo stesso compositore nella prima versione della sua partitura, completata nel 1869 (quella che si vedrà alla Scala), si articola in sette scene suddivise in quattro parti e conta una dozzina di personaggi, compresi quelli minori e minimi.

Boris Godunov, la Russia di ieri e di oggi alla Scala
Boris Godunov alla Scala (Brescia e Amisano, teatro la Scala).

Boris Godunov tra caduta del potere e asservimento del popolo

Nell’insieme, l’impressione è quella di un vero e proprio “montaggio drammatico” concentrato, ordinato in modo tale da focalizzare i due grandi elementi, uno storico e l’altro ideologico, che stavano a cuore al compositore: la caduta del potere, minato dall’autocoscienza sulle efferatezze compiute da parte di chi lo detiene, e l’asservimento del popolo, rassegnato al fatto che la sua oppressione non avrà mai fine. Concetto, quest’ultimo, sintetizzato mirabilmente, sul piano testuale come su quello musicale, dal celebre lamento dell’Innocente nella piazza davanti alla cattedrale di San Basilio, che nella penultima scena compiange il triste destino della Russia.

La censura zarista del dramma di Puškin

Il riferimento storico di Puškin, e quindi almeno inizialmente anche di Musorgskij, consisteva nella Storia dello Stato russo di Nikolaj Karamzin, pubblicata in numerosi volumi a partire dal 1804 e rimasta incompiuta a causa della morte dello storico, avvenuta nel 1825. All’epoca, un lavoro molto apprezzato e molto diffuso in Russia. L’autore era un sostenitore del sistema autocratico e assolutista – qualche studioso lo ha definito una sorta di “storico ufficiale” dei Romanov – ma questo non impedì che il dramma di Puškin, scritto nel 1825 e pubblicato nel 1831, rimanesse escluso dal palcoscenico, per effetto della censura zarista, fino al 1870. Quando cioè Musorgskij aveva già completato la prima stesura della sua opera. Il dettaglio serve per capire quanto l’idea di realizzare un dramma musicale su quel soggetto fosse problematica, in certo modo quasi provocatoria.

Boris Godunov, la Russia di ieri e di oggi alla Scala
Una scena dell’opera di Musorgskij (Brescia e Amisano, La Scala).

La potente tragicità shakespeariana di Godunov

Secondo la narrazione di Karamzin, il boiaro Boris Godunov, che godeva della fiducia dello zar Ivan il Terribile, dopo la morte di questi, nel 1584, aveva svolto le funzioni di reggente quando al trono era salito il pio Fëdor, considerato debole di mente e alla morte di quest’ultimo, nel 1598, aveva assunto la corona imperiale. Nel frattempo, l’ultimo figlio del Terribile, il piccolo Dimitrij, era stato trovato morto con la gola squarciata. Boris aveva fatto indagare su quella morte violenta, senza che venissero accertate responsabilità, ma ben presto si era diffusa la narrazione popolare che egli avesse inviato dei sicari a uccidere il bambino, che aveva sette anni. La turbolenza politica – resa ancora più grave dalle ricorrenti carestie e dalla povertà dilagante – era aumentata quando sulla scena era comparsa la figura di un “falso Dimitrij”, un impostore che accreditava la diceria secondo la quale l’ultimo figlio di Ivan il Terribile fosse in realtà scampato ai sicari. Nel 1605 Boris Godunov era morto ed era arrivato al culmine il cosiddetto “Periodo dei Torbidi”, concluso solo nel 1613, quando era salito al trono Michail, primo esponente della dinastia ancora al potere quando scrivevano Karamzin, Puškin e Musorgskij, quella dei Romanov. Nel Boris Godunov di Puškin, dentro a una vicenda dalle molteplici diramazioni, la figura di Boris assume una shakespeariana, potente tragicità, accolta anche da Musorgskij con una sintesi di particolare effetto. Il dramma musicale coglie la figura dello zar nei momenti cruciali della sua vicenda: assunzione del potere assoluto già turbata dai sensi di colpa (prima parte), terrore e visioni del bambino ucciso (terza parte), morte (quarta parte). Nella seconda parte, la motivazione della tragedia: la storia del bambino trucidato raccontata in convento dal monaco-cronista Pimen e la decisione da parte del novizio Grigorij di tentare la scalata al potere spacciandosi per Dimitrij.

Boris Godunov, la Russia di ieri e di oggi alla Scala
Una scena del Boris Godunov (Brescia e Amisano, La Scala).

Un desolato fatalismo che accomuna lo zar e il popolo

Musicalmente, Musorgskij percorre la strada indicata dallo sperimentalismo di un altro compositore russo, Aleksandr Dargomyžskij, che nel suo Convitato di pietra (pure da un lavoro di Puškin, in questo caso sul mito di Don Giovanni) aveva realizzato in quegli stessi anni un declamato integrale, ritmicamente franto ed espressivamente intenso. Il Boris non presenta quindi numeri chiusi di tradizione (Arie, Duetti eccetera) ma fa un articolato impiego di motivi ricorrenti, collegati specialmente alle figure dell’Impostore e dello zar. Anche nelle decisive pagine corali-popolari il compositore disegna una linea vocale ritmicamente e prosodicamente lontana da ogni facile melodismo, per quanto non manchino i riferimenti alla tradizione russa. Singolare il caso del coro più celebre, Slava! (Gloria), quasi un’insegna dell’arte di Musorgskij, intonato dal popolo al momento dell’incoronazione di Boris. Come ha accertato lo storico della musica americano Richard Taruskin, esso deriva per parole e motivo da una filastrocca beneaugurante, tradizionale specialmente tra le fanciulle durante il periodo natalizio. Il tema era già popolare nei primi decenni dell’Ottocento: fu uno di quelli che nel 1806 Beethoven utilizzò per compiacere il committente dei suoi Quartetti per archi op. 59, l’ambasciatore di Russia a Vienna Andrej Razumovskij. Il suo significato politico-religioso fu di fatto creato da Musorgskij. Il clima espressivo è in generale quello di un desolato fatalismo sia per quanto riguarda i tormenti dello zar, che per il destino del popolo: un pessimismo che dal racconto di vicende lontane secoli nel passato sembra stendere profeticamente la sua ombra su quel che accadde ai tempi di Musorgskij e dopo, dalla Rivoluzione d’Ottobre fino alle tragedie dell’imperialismo dei nostri giorni.

Ildar Abdrazakov, il Boris dell’edizione scaligera

Opera per molti aspetti senza eguali nell’Ottocento (ma non a caso spunto per molti autori del XX secolo, specie in virtù della sua ambizione realistica), Boris Godunov ha tuttavia in comune con i grandi capolavori melodrammatici il focus sul personaggio principale. Boris è infatti uno dei più affascinanti e potenti ruoli per voce grave del teatro musicale di ogni epoca e la tenuta dell’opera nel repertorio è anche strettamente legata al valore di chi sulla scena, nei decenni, gli ha dato vita. Il primo Boris del Novecento è stato il leggendario basso russo Fëdor Šaliapin, dalla formidabile intensità scenica. Dopo di lui, il repertorio elenca grandi cantanti storici come Tancredi Pasero, Nicola Rossi Lemeni, Boris Christoff, Nicolai Ghiaurov (con Abbado) e Ruggero Raimondi. Il Boris di questa edizione scaligera sarà il 46enne basso russo Ildar Abdrazakov, forse il maggiore specialista oggi del ruolo, che interpreta dovunque in Europa e tuttora in Russia, non di rado nella versione del 1869.

Boris Godunov, la Russia di ieri e di oggi alla Scala
Ildar Abdrazakov (Getty Images).

La regia dello spettacolo è affidata al danese Holten, al suo primo Boris

La regia dello spettacolo – musicalmente affidato a Riccardo Chailly – reca la firma del 50enne danese Kasper Holten, già direttore per un decennio del Covent Garden di Londra, che è al suo primo Boris. Inaugurazione svelta, per la soddisfazione di chi fra gli astanti considera la cena dopo-teatro il clou della serata: la durata della musica è di poco superiore alle due ore, un’ora abbondante meno della versione 1872. Meglio sarebbe stato non fare proprio intervallo, come quasi sempre accade nei teatri in cui si allestisce l’Ur-Boris. Ma si sa, la mondanità ha le sue esigenze e la tv pure. Come dal 1976, diretta su Raiuno, cerimonieri Milly Carlucci e Bruno Vespa. Si comincia alle 17.45: meglio non illudersi che le parole, diversamente dal solito, sfuggano alla banalità.